Soliloquio del dolore – 6

Anch’io ho tentato, come tutti, di ritagliarmi uno spazio nel mondo, di trovare il mio posto, attraverso lo studio, la scrittura e l’amore. Per quanto riguarda i primi due ambiti, indissolubilmente legati, fino a formarne, di fatto, uno solo, c’è un passo di una lettera di Stirner, lui sì autore di una vera filosofia del martello capace di disintegrare l’intero pensiero occidentale, che compendia alla perfezione il senso della mia attività letteraria:

Se io cerco con tutte le mie forze di portare una luce diurna che metta in fuga gli spettri della notte, lo faccio forse perché vi amo? Scrivo forse per amore degli uomini? No, io scrivo perché voglio procurare ai miei pensieri un’esistenza nel mondo e anche se prevedessi che questi pensieri vi toglieranno la pace e la tranquillità, anche se vedessi germogliare le guerre più cruente e la rovina di molte generazioni dal seme dei miei pensieri, bene, io lo spargerei ugualmente [24].

Queste parole, splendide nel loro feroce integralismo, esprimono una straordinaria volontà di affermazione della propria individualità, una volontà che è sempre stata vivissima in me, sin dall’adolescenza.
Tutta la mia vita è stata una lotta contro la mediocrità, contro la morale comune e i suoi pregiudizi, i suoi luoghi comuni, contro ciò che Michelstaedter definisce «rettorica», termine nel quale rientra quell’inautentico insieme di valori, o meglio, non-valori proprio dell’uomo socializzato, dell’uomo estroverso, che si tramanda di generazione in generazione. Lo studio e la scrittura sono sempre state per me attività di resistenza e memoria attiva, contro l’incoscienza e l’oblio imperanti. Evidentemente ho perso, evidentemente non sono stato all’altezza di questo tempo e, come il pavido Nino, anch’io inizio a domandarmi a che bene, «a che bene se tutto si dissolve nella nebbia maledetta, se la vita stessa è l’errore, di cui non siamo responsabili – ma pur ne portiamo il peso – a che bene continuare se io lo so, se tu lo sai che mai ci potrà esser mutamento? a che bene?» [25].
Per la prima volta da molti anni, negli ultimi mesi ho deposto le armi e sospeso la mia lotta contro il mondo. È con me stesso che devo fare i conti in questo momento. La fine della mia storia con Lei è quello strappo improvviso nella vita di un uomo, dopo il quale niente sarà più come prima, nel bene o nel male. Dostoevskij è il maestro di questi inattesi sconvolgimenti interiori che sconvolgono le esistenze dei suoi personaggi, e basti pensare ai protagonisti dei suoi quattro maggiori romanzi, Raskol’nikov, Myškin e Nastas’ja Filippovna, Stavrogin, Aleksej Karamazov. Un altro autore che basa molte delle sue opere su questi improvvisi strappi, causa di veri e propri drammi interiori, è Kleist, e ricordo i casi di Alcmena nell’Anfitrione, di Pentesilea, di Käthchen, di Giulietta nella Marchesa di O…, del principe Homburg. Rileggendo quest’ultima opera, ho trovato una certa affinità tra la mia vicenda e quella del protagonista. Natura impetuosa, istintiva, sognante, smisurata, intollerante agli ordini, alle costrizioni, alle imposizioni, Homburg paga a carissimo prezzo la sua insubordinazione sul campo di battaglia, che pure vale la vittoria: la corte marziale lo condanna a morte. Condottiero valoroso e impavido, dinanzi alla fossa che accoglierà il suo cadavere Homburg, sopraffatto dalla paura, perde la testa, si umilia e si dichiara pronto a rinunciare a tutto, all’amore, alla gloria, alla felicità pur di restare in vita [26]. Il principe vive il trauma della propria morte e, dopo questa iniziale fase di spavento, riesce a superarlo, approdando infine a una dimensione spirituale di trascendenza, in cui la fine terrena è vissuta come un momento di passaggio verso l’immortalità [27]. Anch’io, perduto il mio bene più prezioso, perduta la vita, perché di fatto Lei era questo, con la sua luminosità e la sua energia, la vita, per non perdermi dovrei trascendere la condizione umana, cosa che, peraltro, credevo di aver già fatto, e Lei con me, come mi scrisse una volta, all’inizio della nostra corrispondenza. Ma, giunto a questo punto, solamente riconoscendo i miei limiti e i miei errori potrei farlo. È arrivato il momento della resa dei conti con me stesso e non posso più tirarmi indietro, come non si tira indietro Homburg, che rifiuta la grazia del Principe Elettore, accetta la sentenza della corte marziale e decide di morire, in un’ultima, estrema dimostrazione di integrità, indipendenza ed emancipazione.
Se nella vita ho sempre fallito, se non sono stato all’altezza delle mie ambizioni, la colpa è solo ed esclusivamente mia. Sono un uomo senza qualità, ma nel senso letterale dell’espressione. I miei studi e i miei testi non hanno evidentemente alcun valore, sono carta straccia. Eppure Lei li ha apprezzati, si è riconosciuta in essi, le hanno toccato lo spirito, il cuore, e dunque? Dunque solo questo importa, e che tutto il resto si fotta. Che i miei testi abbiano un valore oppure no, me ne frego. Di certo sono dannatamente inattuali, inadatti a quest’epoca effimera, in cui tutto è apparenza e la riflessione è ridotta a un’attività quasi clandestina, di cui provare vergogna. Ma che importa ormai? Gioiello oppure spazzatura, io sono fiero di aver «preoccupato il futuro», come scrive Michelstaedter [28], e di non essermi uniformato, omologato alla moltitudine depensante, restando sempre fedele all’insegnamento di Alëša Karamazov: «Non siate dunque come tutti, non siatelo, anche se doveste essere il solo» [29]. E pazienza se la mia coerenza, se la mia unicità mi escludono dalla vita, dalla vostra vita, dalla vostra danza, se, come Tonio Kröger, mi costringono a restare fuori dalla vostra pista da ballo, a osservarvi e nient’altro. C’è stato un tempo in cui anch’io, certo, come il personaggio di Mann, mi struggevo di restare in disparte, «col viso in fiamme, dolorando per voi, o biondi, o viventi, o felici» [30], ma quel tempo non esiste più. L’esclusione ormai è una mia scelta e siamo noi gli unici responsabili delle nostre scelte, come mi ripeteva spesso Lei. Io ho scelto di isolarmi, di fare terra bruciata intorno a me e sarebbe sciocco tornare indietro, soprattutto ora, che tutto è finito, che la mia ricerca è terminata. Nel vostro mondo, sulle vostre piste da ballo non c’è più niente per me. Non c’è più niente per me da nessuna parte ormai, e non mi resta altro da fare che sostenere questo niente e resistere.
Lei è là, con la sua famiglia e lavora e ama e sogna e danza – io, curvo sulla mia scrivania, abbatto i limiti spazio-temporali e la osservo vivere, mentre imbratto pagine e pagine senza avvenire. Ho avuto l’ultima conferma della mia incompatibilità con la vita, con la realtà, o almeno con questa vita, con questa realtà, della mia incapacità di giungere a una sintesi con ciò che mi circonda e soprattutto con gli uomini, miei simili, a questo punto, solo nell’aspetto. Per quanto sappia vedere dentro l’animo umano, probabilmente il complesso degli uomini mi è rimasto estraneo e incomprensibile. Del resto, non è semplice quando si parlano linguaggi, ancor prima che lingue, differenti. Ho provato a instaurare un dialogo, una comunicazione con gli uomini, ma non mi hanno mai capito, leggendo e ascoltando con aria sorpresa o indifferente le parole che mi uscivano di mano e di bocca. Solo Lei è stata capace di comprendermi, ma Lei ora non c’è più e la mia voce è tornata a gridare nel deserto.

NOTE

[24] Citato in Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, traduzione di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano 2009.

[25] Carlo Michelstaedter, Il dialogo della salute, in Id., Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1988, p. 78.

[26] «Questo mondo divino, madre, è così bello! / Ti supplico, non farmi scendere tra le ombre nere / prima che scocchi la mia ora! / Mi punisca se ho colpa, / ma perché fucilandomi? / Mi tolga ogni mia carica, / mi destituisca, se così vuole la legge, / mi allontani dall’esercito: Dio mio, / da quando ho visto la mia tomba, voglio solo vivere / e non mi chiedo se è onorevole o no. / […] Rinuncio a ogni felicità. […] / Voglio ritirarmi nelle mie terre / lungo il Reno, costruire, demolire: / sudare, seminare e mietere, / come se avessi moglie e figli, ma sarò solo, / e una volta mietuto, seminerò di nuovo / e così giù per il cerchio della vita, / finché, giunta la sera, declinerò e morrò» (Heinrich von Kleist, Il principe di Homburg, traduzione di Cesare Lievi, in Id., Opere, cit., pp. 660-661).

[27] «Immortalità, ora sei mia. / E m’abbagli, attraverso questa benda, / con lo splendore di mille soli, / mi crescono le ali alle spalle, / lo spirito si libra nell’etere silente / e come una nave, spinta dal vento, / vede immergersi lontano l’allegria del porto, / così per me tramonta ogni vita: / distinguo ancora colori e forme / ma poi vedo soltanto nebbia» (Ivi, p. 700).

[28] «Ho riso di tutto e ho vissuto per sport. Ed ora che ho conosciuto cosa era la mia sicurezza ed ho preoccupato il futuro, che cosa mi resta se non il riso maligno, e il dolore bruto per la brutalità irriducibile della forza che mi tiene in vita? peggiore questo dolore che tutto il dolore che ho provato quando vedevo per la prima volta. Solo una reazione avrei potuto avere – così pensavo nella mia speranza, solo una reazione mi resta ora: d’andarmene, di distruggere questo corpo che vuol vivere» (lettera del 2 settembre 1909 all’amico Enrico Mreule, il socratico Rico del Dialogo della salute, in Carlo Michelstaedter, Epistolario, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1983, p. 407).

[29] Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 548.

[30] Thomas Mann, Tonio Kröger, traduzione di Emilio Castellani, in Id., La morte a Venezia, Tristano, Tonio Kröger, Mondadori, Milano 1970, p. 282.

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